mercoledì 22 ottobre 2014

Bruciante segreto, di Stefan Zweig

ATTENZIONE, QUESTA RECENSIONE POTREBBE CONTENERE ANTICIPAZIONI SULLA TRAMA

Anche questo è un brevissimo racconto che si divora in poche ore, quasi senza accorgersene.
Non ho ancora letto moltissimo di Zweig, ma credo comunque di poter dire che la sua è una prosa travolgente, nel vero senso del termine. I suoi racconti si aprono con una tranquilla descrizione di una situazione tipica, quasi banale, per poi lentamente trasformarsi estringersi attorno il lettore in un vortice di sensazioni esasperate fino al parossismo.
In questo racconto ci troviamo in un albergo, fuori stagione, in compagnia di un giovane barone annoiato. L'attenzione di questo uomo, un cacciatore, come lui stesso si definisce, è attirata da una donna, non giovanissima ma ancora piacente. Il lettore potrebbe essere quindi indotto a credere che la storia evolverà con i tentativi di seduzione dell'uomo, ma è proprio in questo momento che entra in scena il vero protagonista del racconto: Edgar, il figlio dodicenne della donna, ragazzino fragile che sta recuperando le forze dopo una lunga malattia, annoiato da una vacanza dove nessun adulto sembra volergli prestare attenzione.
È dunque con disarmante ingenuità ed entusiasmo che Edgar accoglie le attenzioni del barone, con una gioia tipicamente infantile, la gioia che lo fa illudere di essere importante, di non essere più un bambino, di avere qualcosa di interessante da offrire ad un adulto distinto come il barone. E quanto più è grande e vivido il suo iniziale entusiasmo, tanto più cocente è il suo terrore, il suo sospetto, e infine la sua delusione quando si rende conto di essere stato solo uno strumento, gettato da parte, ingnorato, ritenuto addirittura d'intralcio da sua madre e dal suo nuovo amico.
Inizia quindi una discesa nei sentimenti più cupi, nella rabbia e nell'odio, dove la razionalità perde la presa sui fatti e dove il confine tra infanzia ed età adulta si fa sempre più labile.
Edgar cresce, prova sentimenti da adulto, ma la sua mente e le sue conoscenze sono ancora quelle di un bambino che vorrebbe a tutti i costi scoprire qual è quel segreto che tutti gli adulti sembrano conoscere. E sembra arrivarci veramente vicino, ma le emozioni si sono fatte troppo intense, troppo rapide perché lui possa coglierlo davvero.
È un racconto che è un accelerare continuo, di emozioni, di sentimenti, un vortice sempre più stretto e rapido che aumenta fino a raggiungere l'acme, e poi improvvisamente rallenta, sembra restare sospeso.
Leggo tanti dire che si tratta del passaggio di Edgar all'età adulta, ma io non credo di essere del tutto d'accordo. Credo sia un assaggio dell'età adulta. Perché in fondo, in conclusione, Edgar fra le braccia di sua madre, sotto le coperte, con il segreto della donna che non è riuscito a carpire ma ha deciso di salvaguardare, torna ad essere un bambino. O meglio, sceglie di essere ancora bambino, ancora per un po' almeno. E, certo, già una scelta simile implica un cambiamento irreversibile, l'aver in incubazione il seme di quella che sarà l'età adulta, ma è un passaggio che a mio parere ancora non è avvenuto.
In ogni caso, trovo si tratti di un racconto estremamente coinvolgente. Zweig scatta decisamente ad occupare un gradino del podio dei mie "autori-rivelazione" di quest'anno.

venerdì 10 ottobre 2014

Gli indifferenti di Alberto Moravia

ATTENZIONE, QUESTA RECENSIONE POTREBBE CONTENERE ANTICIPAZIONI SULLA TRAMA

Leggo Moravia per la prima volta, e lo faccio partendo proprio dal suo primo romanzo. Non è stata una scelta deliberata, ammetto di essermi affidata un po' al caso, di essermi buttata, ma sono contenta che le cose siano andate così. Leggo il primo Moravia (primo in tutti i sensi) a ventidue anni, e ventidue anni aveva lui quando scrisse questo romanzo: certo la cosa non mi lascia indifferente (è un gioco di parole non voluto, lo giuro), perché i miei ventidue anni mi sembrano così piccoli, così insignificanti al confronto... ma torniamo a noi.
Torniamo a questo dramma borghese, dove dramma mi sembra proprio il termine più adatto: leggendo questo romanzo ho avuto le stesse sensazioni che ho quando assisto ad un dramma a teatro, puntando tutta la mia attenzione su una scena con pochi ambienti fissi, sempre quelli, a malapena caratterizzati (la villa, una strada bagnata dalla pioggia costante, la casa di Lisa, la casa di Leo) e una manciata di attori pronti a tirare avanti tutto lo spettacolo da soli, senza bisogno di comparse, senza spalle. Infatti gli unici personaggi presentati da Moravia sono proprio loro, Carla e Michele, la madre (appellata quasi sempre così, raramente detta Mariagrazia, quasi fosse solo un personaggio, un ruolo), Leo e Lisa. Qualcun altro è nominato di sfuggita, ma non compare mai attivamente, mai in prima persona, non ci sono altre voci al di fuori di queste cinque. La madre, i figli, l'amante, l'amica. Ruoli che si intrecciano e si confondono. La madre che è quasi sempre appellata attraverso il suo ruolo genitoriale, ma che di materno non ha nulla, una donna fatta di capricci, gelosie e atteggiamenti infantili. L'amante, Leo , che è amante della madre ed era stato amante dell'amica e si appresta ad adoperarsi a diventare amante della figlia, senza aver provato amore per nessuna di queste figure. La figlia, Carla, disperata e non rassegnata a vivere la sua vita sempre uguale, sempre monotona, che s'è lasciata trascinare dall'esistenza per ventiquattro anni senza opporsi a nulla, abbandonata, che cerca di trovare una "nuova vita" concedendosi all'amante di sua madre, senza interesse, senza passione. E l'amica, Lisa, abbandonata dal marito, abbandonata dall'amante, che suscita le inutili gelosie della sua amica Mariagrazia e cerca di trovare affetto e calore fra le braccia di Michele, troppo giovane e indifferente per curarsi davvero di lei. E infine, c'è lui, Michele. Il personaggio forse più controverso, il più lucido e al tempo stesso il più incapace di spezzare tutta la finzione in cui la sua famiglia è avvolta. Michele è un personaggio in cui è facile specchiarsi, un uomo debole e indifferente, che affronta la sua vita covando rancori e sofferenze, senza avere però la forza di incanalarli contro gli oggetti che ha davanti. Michele sente ogni passione, razionalmente conosce perfettamente ogni emozione, ogni reazione che da lui ci si aspetterebbe, e si sforza con struggente impegno di aderirvi, di incarnarli, come un perfetto attore. Eppure non sente nulla, nulla lo riesce a colpire davvero, la vita la pensa e non è  capace di viverla restando, irrimediabilmente, indifferente.
Un romanzo crudo, freddo per certi versi, narrato con una prosa estremamente precisa ma asciutta, che nonostante tutto però permette di sentire sulla propria pelle i piccoli, immensi dolori di questi personaggi che nonostante la complessità delle loro relazioni restano sostanzialmente soli, incapaci di comunicare davvero anche solo il più piccolo sentimento, irrimediabilmente chiusi nei propri drammi, nelle proprie preoccupazioni, nelle proprie individualità. E questo muro, questa totale assenza di una qualsiasi forma di empatia in un primo momento sembra rimbalzare sul lettore, che si sente messo all'angolo, solamente spettatore. Eppure, in qualche modo, questo essere solo spettatori di emozioni paralizzate finisce col trascinare e travolgere inevitabilmente, perché forse un po' di questa indifferenza la conosciamo anche noi, la riconosciamo anche come nostra. E non sono sicura sia un processo piacevole riconoscere così bene i drammi di Carla e Michele e la madre.
Un grande romanzo che mi ha convinta dai primi capitoli a voler leggere altro di Moravia.

giovedì 25 settembre 2014

Ho imparato il ritmo delle mie irregolarità
dopo aver smesso di pretendermi
inchiostro.

Le mie curve interrotte
- respiri -
fra la schiena e le reni
con i brividi spenti
sono istanti
di raccolta.

È spiritualità marcescente,
di orgasmi morenti
come quella Venezia che non lo so
- fra i miei fremiti -
se ho scritto o vissuto.

Ma scrivo poco,
vivo poco e lo faccio di getto,
con l'apnea dei respiri mancati
e i miei singhiozzi
come onde.

lunedì 22 settembre 2014

Naufragio

Sognarti
è qualcosa simile ad odiarmi
condanna vana ad un senso di colpa
insincero.
Sognarti è prepotenza
prenderti di forza
e cancellare la distanza
che hai concretizzato in silenzio.

M'è bastato il tuo sguardo
illusorio
ubriaco di perdono
- l'amarezza, perdonala-
e le onde
rythmos
poesia nella prosa
per tornare a piovermi
dentro.

Ché il deserto
dentro
è il risveglio colpevole
di dita bagnate
e dei versi che ho smesso.

domenica 21 settembre 2014

Amok, di Stefan Zweig

Credo che con Zweig stia nascendo una bellissima storia d'amore. Ne avevo avuto il sentore con "Mendel dei libri", e la lettura di questo secondo piacevolissimo racconto me l'ha confermato.
È un "racconto nel racconto": di notte, sul ponte di una nave che sta facendo ritorno in Europa, un uomo inciampa nel racconto vagamente delirante di un medico. E il delirio, lo stordimento dei sensi, la perdita di ogni controllo in favore di uno sconvolgente furor è il filo conduttore di tutto questo racconto. Amok è il termine malese che indica il folle delirio di chi improvvisamente cede ad una violenza inaudita e immotivata e perde ogni concezione di sé, abbandonandosi ad una corsa di sangue. Delirio che sembra avere le sue radici nel clima torrido ed estraniante dell'estremo Oriente,  che scava lento e invisibile nella mente delle persone fino ad arrivare al punto di non ritorno.
Zweig è magistrale nel trascinare il lettore in uno sperduto villaggio di una colonia Olandese, nella casa di un tranquillo medico che, turbato da una misteriosa visita di una  bella e austera donna, lentamente precipita in un vortice di follia sempre più incontrollabile, fino ad un tragico epilogo che lascerà l'uomo privo di forze, annientato, svuotato, proprio come la vittima dell'amok che crolla a terra, i nervi distrutti, al termine della sua corsa di follia.
Assieme al protagonista noi sembriamo essere travolti e al tempo stesso sfiorati solo in superficie dal racconto del medico, eppure un segno, una minuscola scalfittura sembra lasciarci, nelle ultime pagine, con l'inquietante sensazione che l'amok, incontrollabile, potebbe covare anche dentro di  noi.

sabato 20 settembre 2014

Mendel dei libri, di Stefan Zweig

Una piccolissima perla. È una definizione banale, d'accordo, ma non saprei come altro definire questo brevissimo racconto.
Non avevo mai letto Zweig, e credo non avrei potuto iniziare a farlo con un'opera migliore: è il racconto perfetto per restare completamente affascinati da un nuovo autore. La scrittura di Zweig è estremamente fluida e ricca, coinvolge tanto da far dimenticare la parola scritta e dipingere nella mente del lettore immagini vividissime. Mi sono veramente bastate pochissime righe per ritrovarmi a fissare incuriosita il tavolino di marmo del Caffé Gluck, rapita dal ricordo del protagonista e dalla figura di Mendel. Sicuramente Mendel, piccolo rigattiere di Vienna, con la sua straordinaria memoria per tutto ciò che rguarda i libri e il suo modo di leggere assoluto, totale, dondolando davanti alle pagine dei libri, entrerà nel cuore di qualsiasi appassionato lettore. Ma accanto alla simpatia per questo buffo omino che conosce a memoria il catalogo di qualsiasi libreria e biblioteca si fa strada una tenerezza per la sua ingenuità che si fa via via struggente mano a mano che la Storia si apre un varco nella vita di Mendel.
Sul finire, il racconto della "signora della Toilette" non può che stringere un nodo nella gola del lettore.
Un racconto particolarissimo, un protagonista particolarissimo, maniacale, con qualche tratto che, chissà, sembra quasi ricordare l'autismo, ma che finisce per emozionare immensamente.

venerdì 5 settembre 2014

Tender is the night, di Francis Scott Fitzgerald

Prima di cominciare a parlare di questo romanzo nello specifico, credo di dover fare una premessa. Una premessa che forse risulterà vagamente delirante e in un certo senso forse estremamente supponente, non lo so, ma mi è necessario parlare anche di questo prima di poter proseguire oltre. Probabilmente prima di lanciarmi in affermazioni del genere dovrei fermarmi e provare a leggere anche altro di Fitzgerald, perché un solo romanzo e un racconto lungo quale è The Great Gatsby (un capolavoro, d'accordo, ma pur sempre un racconto lungo) non sono certo una conoscenza esaustiva di un autore. Si tratta probabilmente di un'intuizione, qualcosa di non del tutto razionale, qualcosa forse simile a ciò che ci spinge a lasciarci impressionare ed affascinare da alcune persone che a malapena conosciamo, ma quando leggo Fitzgerald, a prescindere dalla trama e dai personaggi, sento una sorta di attrazione quasi viscerale. Forse è qualcosa nello stile, nella ricercatezza non ostentata di ogni singolo termine, nel fluire elegantissimo delle frasi, o forse, più probabilmente, si tratta di una sorta di tonalità emotiva che permea proprio la scrittura di Fitzgerald. Mi sembra quasi che ci sia una comunione di sentire che mi fa sentire chiamata in causa in prima persona. Insomma, sono particolarmente sensibile a Fitzgerald, quasi leggendolo avvertissi una voce, delle tonalità, degli accenti particolari che alle mie orecchie, a prescindere dalle parole che pronunciano, acquisiscono una sovrabbondanza di significato.
Dunque leggere Fitzgerald è per me un'esperienza che si discosta un pochino dal mero lasciarmi trascinare in una vicenda, ha qualche connotato in più, è un'esperienza del tutto intima che supera e si allarga oltre le emozioni date dal puro romanzo.
Credo che Tender is the night sia un romanzo estremamente teatrale: teatrale in un modo tutto particolare, teatrale come quando lo sguardo dell'attore incontra quello di uno spettatore e da questo incontro, da questo sentirsi dell'attore riconosciuto nella sua natura, egli stesso si renda conto di essere null'altro se non finzione. E' dunque un romanzo che parla di finzione e realtà, dove l'attenzione è posta tutta allo scarto inquietante che rende così labile e ambigua la differenza fra i due stati.
Ci sono autori che inevitabilmente fanno di un solo elemento, di un tema declinato nei più diversi modi il tratto portante di tutta la loro produzione: a me sembra che la decadenza, lo sgretolarsi di una superficie luminosissima in un pozzo tetro sia un po' il leitmotiv delle opere di Fitzgerald, nonché della sua stessa vita. Non è difficile vedere dietro lo splendido Dick, bellissimo e sicuro di sé, della sua vita e del suo talento lo stesso Scott, pronto a lasciarsi travolgere dalla sfavillante apparenza della sua vita per ricadere in un baratro di angoscia, solitudine e alcool. E come non vedere nella malattia mentale di Nicole un riferimento alla schizofrenia di Zelda? E le origini economicamente modeste di lui, l'agiatezza della famiglia di lei...insomma, Fitzgerald credo sia stato estremamente esplicito.
Forse è proprio questo continuo riferirsi al labile confine tra ciò che è e ciò che non è, tra realtà e apparenza, finzione e naturalezza, vita e letteratura a fare la forza di questo romanzo. Un romanzo che in apertura si presenta come incentrato sulla bella e giovane Rosmery Hyot, nascente astro del cinema che si lascia incantare dal fascino dapprima dell'intera famiglia Diver, poi in particolare da quello maturo e irresistibile di Dick, per poi scivolare indietro nel tempo, e mostrare gli elementi più complessi del rapporto dei due coniugi. E quando il lettore si è finalmente persuaso della debolezza di Nicole, della forza e della personalità di Dick, ecco che tutto inizia a cambiare di nuovo, i rapporti si logorano, gli equilibri di forze mutano, e mentre Nicole acquisisce fiducia e forza nella sua mente, Dick inizia a scivolare nell'angoscia così nota allo stesso Fitzgerald.
Mi è quasi parso si stesse parlando di un Gatsby dilatato (alcune scene, come quella in cui Jay comunica a Tom che sua moglie non lo ama più sono riportate in maniera quasi identica), eppure qui troviamo una maggiore ampiezza, più attenzione per il logorarsi di rapporti familiari e interpersonali. Forse proprio in questa ampiezza sta anche una leggera debolezza che in Gatsby io non ho avvertito, perché vengono introdotte situazioni e personaggi potenzialmente interessantissimi, che però in qualche modo vengono lasciate cadere in un vago stereotipo (il rapporto di Rosmary con sua madre, il personaggio di Baby Warren, la minuscola apparizione del padre di Nicole, personaggio scomodo e potenzialmente pericolosissimo per l'equilibrio del romanzo, introdotto e fatto sparire in poche pagine senza che il suo ritorno smuova di molto le acque...).
In definitiva però lo ritengo comunque un grandissimo romanzo, capace di parlare di malinconia e angoscia attraverso feste, bellezza e ricchezza.

domenica 17 agosto 2014

L'eleganza del riccio, di Muriel Barbery

ATTENZIONE, QUESTA RECENSIONE POTREBBE CONTENERE SPOILER
Solitamente quando recensisco un libro che mi è piaciuto molto non posso fare altro che spenderci innumerevoli parole, mentre quando un libro non mi è piaciuto tendo ad essere molto più sintetica. Questo invece è un caso un po' diverso, perché il libro decisamente non mi è piaciuto, eppure credo di avere una discreta quantità di chiacchiere da mettere in ordine.
Partiamo dal presupposto che questo libro mi ha da sempre incuriosita, dapprima solo "a pelle", forse per il titolo vagamente insolito, e poi perché le opinioni che avevo letto erano talmente contrastanti che non vedevo l'ora di potermi fare una mia opinione. Eppure, non so perché, ho aspettato veri e propri anni prima di cominciare a leggerlo, forse aspettando il famoso "momento giusto", forse perché le opinioni così diverse mi rendevano incerta, non avendo idea di che cosa aspettarmi. E l'ho cominciato davvero con uno degli stati d'animo più neutri con cui abbia approcciato un libro negli ultimi anni, senza pregiudizi o aspettative, come forse mi piacerebbe poter affrontare qualsiasi lettura, solo con tanta curiosità, visto il tanto parlare che se ne è fatto.
Ebbene, qualche elemento positivo c'è, di questo devo prendere atto: la scrittura della Barbery è molto scorrevole, nonostante qualche (forse più di qualche) digressione pseudo filosofica è un romanzo che si lascia leggere  con semplicità e in pochi giorni. Inoltre, almeno in linea teorica mi piace il messaggio che il libro cerca di lanciare, una sorta di apologia della cultura, o per meglio dire un omaggio alla cultura, all'arte e al bello come possibilità di salvezza e riscatto (certo, per chi abbia masticato anche solo un po' di filosofia in maniera decente a scuola non risulterà un'idea poi così innovativa e sconvolgente, ma apprezzo il tentativo quantomeno). Insomma, riconosco la nobiltà dell'intento, apprezzo decisamente meno il risultato finale, poiché questo messaggio cambia connotati, si trasfigura e si veste di autoreferenzialità e di pienezza di sé.
Protagoniste di questo romanzo sono due figure femminili surreali ed estremamente spocchiose ed irritanti: la giovanissima, intelligentissima, ricca Paloma, ragazzina dal quoziente intellettivo a suo dire superiore alla media, stanca di una vita in mezzo alla monotonia, inferiorità e mediocrità della sua famiglia, intenzionata  a suicidarsi e dare fuoco al suo appartamento il giorno del suo tredicesimo compleanno, autrice di un diario colmo di "pensieri profondi"che di profondo hanno solo la capacità di giocare con le parole per costruire immagini di fumo, prive della minima sostanza. E poi c'è lei, Renée, la portinaia del palazzo in cui vive Paloma, una donna dall'immensa cultura che si crogiola tormentando il lettore con il suo sfoggio di istruzione, cultura, snobismo e senso di superiorità nei confronti di chiunque abbia avuto la fortuna di nascere in una famiglia agiata, una donna che per tutta la vita cerca di nascondere la sua cultura, di non mostrarsi per quello che è, fingendosi sciocca agli occhi di tutti i condomini, che in quanto ricchi devono per forza essere stupidi e ignoranti. Insomma, una donna che con la cultura si è costruita dei paraocchi enormi, e che dimostra come "cultura"non sia minimamente sinonimo di "intelligenza".
In mezzo a questo dipanarsi di autocompiacimento e sfoggio di cultura fine solo ad innalzarsi un piedistallo da cui osservare con aria di superiorità chiunque, si innestano innumerevoli riflessioni filosofiche da due lire, pesanti per chi non mastica la materia, inutili e superficiali per chi invece la conosce almeno un po'. E dopo un centinaio di pagine praticamente prive di trama, quando il lettore ha avuto pienamente modo di sviluppare una totale antipatia per queste due donnine, ecco che la storia si va ad incagliare nella cosa più banale che potesse capitare, e lo fa nel modo più banale possibile: un uomo bello, ricchissimo ma intelligente, fine, acculturato, educato, gentile, si trasferisce proprio in questo palazzo, stringe amicizia con Paloma, cita Tolstoj davanti a Renée e, grazie alla sua reazione sconvolta (non so voi, ma io sentendo citare l'incipit di Anna Karenina al limite sorrido, di certo non perdo per un momento tutte le mie facoltà intellettive) comprende quale essere magnifico e superiore lei sia, e la invita a cena. Non contenti di questa piega così rosea e scontata, intuibile fino dalle prime righe della comparsa in scena di Ozu, la Barbery, forse in preda al panico non sapendo più come dipanare i fili della matassa, opta per un finale estremo, che le tolga ogni responsabilità. Se ne lava le mani, insomma.
No, decisamente questo romanzo non mi è piaciuto. E di certo non perché mi infastidiscano o trovi pesanti le digressioni artistiche o filosofiche, o perché non apprezzi opere d'introspezione e praticamente prive di trama (anzi, se scritte bene sono probabilmente quelle che preferisco). Piuttosto trovo che, a prescindere da quanto abbia trovato odiosi i personaggi o da quanto banalotta mi sia sembrata la poca trama, il messggio di fondo di questo romanzo sia terribile: cultura e arte come elemento caratterizzante di una elìte superiore, spocchiosa e arrogante, chiusa. Insomma, Paloma e Renée, in qualche modo, finiscono per ricadere nella pochezza e nella ristrettezza di vedute di cui per tutto il romanzo si lamentano, e ciò è aggravato dalla loro convinzione di essere comunque superiori,  migliori, grazie alla loro presunta intelligenza e cultura.

giovedì 31 luglio 2014

Memorie di una Geisha, di Arthur Golden

Per la prima volta mi trovo a cercare di scrivere qualcosa che vada oltre una recensione, ed è estremamente buffo rendermi conto che ora, quando potrei semplicemente lasciarmi andare a ruota libera, senza pormi binari, obblighi o limitazioni - ché queste libertà sono le uniche regole che mi sono concessa nel mio angolino - mi trovo forse più in difficoltà di quando cerco di scrivere una recensione ricordandomi che, per definizione, una recensione dovrebbe limitarsi a riflettere sul contenuto di un romanzo, esulando dalle riflessioni puramente personali. Non sono mai stata in grado di seguire una traccia, sono composta di divagazioni, di modo che il contenuto finisca col frammentarsi in innumerevoli risvolti privi d'importanza, e ho sempre vissuto tutto ciò con una sorta di soggezione, con vergogna, ed ora che mi do la libertà di divagare come meglio credo, la soggezione pare aumentare esponenzialmente.
Ma bando alle titubanze, per parlare di un romanzo sarebbero forse necessari alcuni cenni alla trama, ma preferisco lasciare questo compito a persone maggiormente dotate di oggettività e dono della sintesi. Io preferisco parlare dei pomeriggi di un luglio completamente sbagliato, i pomeriggi sul divano con una coperta sulle gambe e una tazza di tè che con lo scorrere delle pagine iniziava ad assumere sapori più complessi.

Alcune volte capita di vedersi passare davanti un romanzo, di trovarlo in cima alla pila dei best-seller, di sentirne tessere le lodi da così tante persone che nella propria mente scatta una sorta di arrogante pregiudizio secondo il quale qualcosa di tanto apprezzato da un così vasto pubblico deve per forza essere un'opera, se non scadente, almeno mediocre. Ecco, proprio questo mi è successo con Memorie di una Geisha, un romanzo che ho sempre evitato, credendo non fosse altro che un pruriginoso scavare fra le tradizioni che maggiormente stuzzicano l'immaginario erotico occidentale solo per il gusto di attirare l'attenzione del maggior numero di persone, senza prestare attenzione alla qualità.
Non v'è dubbio che i pregiudizi non sono mai qualcosa di particolarmente intelligente (e attenzione, parlo di pregiudizi, non di buon senso), a maggior ragione quando questi pregiudizi ci portano a ritenerci in qualche modo superiori, migliori (perché, sì, credere di non potter apprezzare qualcosa di mediocre e di gradito ad un pubblico non particolarmente attento al mondo della letteratura scade in una leggera forma di arroganza che forse è inseparabile da un lettore che si consideri quantomeno appassionato) e questo libro ne è in qualche modo la dimostrazione.
Dicevo, mi sono sempre tenuta lontana da questo romanzo fino a quando, qualche anno fa, iniziai a vedere il film assieme ad un amico, e lo trovai interessante (tralasciamo il fatto che, pur non avendo mai terminato la visione del film, ho visto abbastanza per sapere che, dopo aver letto il libro, non mi interessa andare oltre), e così acquistai l'ebook del romanzo. Ebook che rimase per molti, molti mesi a riposare, dimenticato, in mezzo a file ai miei occhi ben più interessanti, fino a quando, al termine di una delle mie peggiori sessioni d'esame estive, mi sono resa conto di avere bisogno di una lettura leggera, "da svago", con una bella trama avvincente che mi tenesse la fantasia impegnata ma senza richiedere troppe energie, e la storia di questa ragazzina dagli occhi con troppa acqua mi è tornata alla mente.
Che dire, decisamente questo è uno di quei casi in cui i pregiudizi rivelano tutta la loro infondatezza. Sia chiaro, non ho intenzione di mettermi a gridare al capolavoro, non ho certo incontrato il mio libro preferito, ma sicuramente ho trovato qualcosa che fra le letture "da intrattenimento" spicca e balza ai primi posti. È innegabile che mi sia immersa totalmente, completamente nei quartieri di Gion, senza tuttavia sentirmi anche solo minimamente spossata da questo sforzo di immersione.

Trovo che sia un romanzo delicatissimo, con uno stile leggero e assai fluido, scorrevolissimo nonostante il ritmo non sia esattamente serrato, che prende per mano il lettore e lo immerge totalmente, completamente in un altro mondo. È insomma uno di quei romanzi che si leggono d'un fiato, in cui si divorano pagine su pagine con curiosità, senza sentire il bisogno di emergere in superficie ogni tanto per prendere aria e riflettere. Complice di questa totale immersione probabilmente è anche l'ambientazione, che, almeno con me, che sono totalmente digiuna di cultura giapponese, ha giocato anche la carta dello svelare usanze, mondi, atmosfere a me praticamente sconosciute. Non ho idea di quanto ci sia di storicamente fondato in questo romanzo, ma se devo essere sincera mi interessa anche poco, mi ha fatto piacere calarmi in un mondo dove tutto, anche solo i ritmi e l'approccio alla vita hanno un gusto così delicato, diverso, sospeso mi verrebbe da dire. Perché è indubbio che il tempo, in questo romanzo, scorra in maniera diversa: i giorni si assommano fino a creare anni, decenni, eppure tutto accade con una levità tale da permettere di concentrarsi solamente su alcuni dettagli, mentre gli elementi fondamentali, quasi fossero imbellettati sotto strati di cerone, paiono restare immobili: a mutare è forse solo la luce, la prospettiva... a mutare siamo noi lettori, che impariamo a vedere la piccola e impaurita Chiyo non più come una bimba spaventata, ma come giovane donna, come Geisha, artista, donna innamorata, tormentata, felice.
Certo, qualche difetto ha un po' incrinato il piacere della lettura: personaggi come Hatsumomo, importanti e potenzialmente intrigantissimi risultano un ammasso di stereotipi, senza profondità caratteriale (la bella e per sua natura csttivissima, che al primo sguardo già odia, che sembra avere come solo scopo nella vita quello di far soffrire gli altri... mah, sembra molto il cattivo di una fiaba, cattivo a priori, solo perché deve essere cattivo), o anche Zucca, buona ma imbranatella, rotondetta, una sorta di zerbino che solo alla fine acquisisce un po' di spessore e veridicità; la seconda parte del romanzo poi ai miei occhi è apparsa decisamente sottotono rispetto alla prima, più concitata, con tantissimi avvenimenti importanti condensati in poche righe, avvenimenti che si fanno sempre più inverosimili fino ad arrivare ad un finale a mio avviso forzatissimo e stucchevole, un finale che veramente a me non è piaciuto.
In ogni caso, credo che quando un romanzo, dopo poche righe di lettura ti fa dimenticare il suo stile, i difetti, i pregi per immergerti completamente nelle sue vicende, al punto da farti quasi sentire l'odore di bruciato dei bastoncini per disegnare le sopracciglia e il frusciare dei kimono di seta, significa che in qualche modo qualche scopo è stato raggiunto.
Non è forse un romanzo che entrerà nella storia della letteratura, ma senza dubbio ha il pregio di farsi vivere dal lettore, e non è cosa da poco.

giovedì 24 luglio 2014

Le notti d'ambra

Le notti d'ambra son luci a San Siro
in una città orfana di dita
rosate.

Un'altra danza, signori.
Una nuova morte mascherata a festa.

Manca il bianco, resta il giallo del cielo
compresso,
sulle spalle chinate.

E scivolare sull'ambra
fra i conati dell'alba
ha il sapore
effimero
d'una rinascita cucita sugli occhi.

Ho strazi nascosti
fra le voci affannate
m'attardo
e rimango
un urlo sbiadito
al centro delle mie
contraddizioni.

Le mie rivincite sui sogni affidati
a mani tremanti
sono sussurri frapposti ai respiri
dedicati al mio egoismo
di cui voglio smettere le colpe.

Le mie àncore,
ancòra sfiorite,
saranno i suoni uditi da tutti
e da nessuno accettati.
I miei riscatti deboli
ricami di luce
avranno l'odore della nebbia
che non sa più far tremare.
I miei assensi alla vita
gridati in una lacrima
commossa
troveranno spazio fra le mani
alzate al cielo.

Le mie forti salvezze
saranno
le mie
notti d'ambra.


mercoledì 18 giugno 2014

Dei cambi di direzione o degli imbarazzi di una presentazione

L'idea di ritagliarmi un angolino virtuale, di arredare una stanza tutta per me con i miei pensieri e di imbrattarne le pareti con i miei scarabocchi mi vorticava in testa da tempo, devo ammettere, ma come sempre l'impulsività delle mie decisioni non si accorda con la pigrizia e gli sciami di dubbi che mi impediscono di agire tempestivamente.
Ed ora mi ritrovo con un angolino virtuale che, più che una stanza, ricorda un ripostiglio confuso, vuoto eppure disordinato, traballante nelle sue fondamenta a causa della mia allergia alla tecnologia e della mia terribile indecisione, che mi porta a riempire di frasi vuote quella che vorrebbe essere una presentazione nello scadente tentativo di temporeggiare, ché il vero problema è che le mie idee riguardo alla direzione da dare a questo spazietto sono ancora oltremodo confuse. Lo slancio d'entusiasmo iniziale vedeva questa mia stanzetta come una grande e confusa libreria, una libreria con tutte le mie letture accuratamente recensite e ampiamente disquisite, perché lo spazietto che dedico alle mie recensioni su aNobii (precisamente, qui) inizia a starmi stretto. O meglio, il mio problema è un egocentrismo smisurato, un inevitabile vivermi come filtro ultimo e invalicabile che mi impedisce di fermarmi alla mera recensione dal punto di vista letterario, ma anzi sposta l'intero baricentro dei miei sproloqui su di me e su come io ho percepito una determinata lettura, quali tasti abbia premuto, quali nervi scoperti abbia stuzzicato, e tutto ciò ovviamente su una piattaforma come aNobii sarebbe fuori luogo. E allora mi sono detta che davvero una stanzetta in cui poter sproloquiare secondo la mia discrezione di libri e di me non sarebbe stata una brutta idea. Ma ecco che, non avendo nemmeno iniziato ad arredare la mia nuova stanzetta, di nuovo lo spazio sembra non bastarmi più: perché, sì, sento l'esigenza di poter parlare di libri - di libri e di libri in rapporto a me - in tutta libertà, ma al tempo stesso mi rendo conto che mi piacerebbe anche parlare solo di me, anche indirettamente, nascondendomi dietro le figure retoriche dei miei scarabocchi. Per anni ho impilato fogli su fogli, imbrattandoli d'inchiostro per alimentare i miei sogni - le mie illusioni, forse sarebbe meglio parlare così? - di avere anche io qualcosa da dire, ho alimentato la presunzione di sperare, di poter almeno provare a stare per un po' dall'altra parte della carta, sporcandomi d'inchiostro non solo gli occhi, ma anche le dita. Decine di personaggi, fiumi di figure retoriche e ore spese a ricercare le espressioni che meglio mi permettessero di dipingere con delle lettere un'emozione, nell'ultimo periodo anche qualche verso. 
Penso di avere abbastanza senso critico da rendermi conto benissimo che i miei scarabocchi, i miei tentativi di spurgare tutte le mie debolezze e le mie paure attraverso dei fiumi d'inchiostro non hanno alcun valore se non per me; da tempo ho smesso di pensare che la scrittura potesse rappresentare per me qualche cosa di più di una mera passione e di uno sfogo, ma mi sono detta che, perché no, forse in una stanza tutta per me posso anche permettermi lasciare perdere i parametri e la soggezione per tutto ciò che ritengo tremendamente superiore a i miei timidi tentativi di mettere in fila parole, e lasciarmi andare, prendendomi i miei spazi.
Già solo questo primo approccio, queste mie chiacchiere senza filo conduttore e senza meta avrebbero voluto andare in tutt'altra direzione: questa mattina, mentre armeggiavo inutilmente con dettagli tecnici quali la mia totale incapacità di muovermi tra gli strumenti grafici di un blog, m'immaginavo scrivere qualcosa che prevedesse il fatto che il modo migliore per parlare di me fosse quello di parlare del libro che nove mesi fa mi s'è insinuato sottopelle, m'ha spiazzata e spaventata, perché sì, ci sono libri che parlano di noi, oppure a noi, o entrambe le cose senza soluzioni di continuità, e La campana di vetro di Sylvia Plath con me ha fatto proprio questo.
Ho finito con lo riempire lo schermo di parole, senza poi dire molto, ma i miei inizi sono sempre traballanti, cerco sempre di riservarmi una stradina sicura per tornare, non so fare salti nel vuoto.
Quindi, non so quale direzione darò a questo angolino virtuale male arredato, preferisco pensare che non ci sia direzione, o comunque che la direzione verrà a costituirsi da sola, senza obblighi e senza aspettative, senza imposizioni.
Quel che so è solamente che in ventun anni non ho saputo imparare il significato di “ordine” e “costanza”, quindi posso già immaginare che questa mia povera stanzetta conoscerà momenti di congestionata attività alternati a periodi di totale abbandono, ma non importa, non voglio forzature, solo passione. E la passione, quella sì, nemmeno la mia terribile incostanza è riuscita mai a scalfirla: da sempre, continuo a vivere di respiri di carta.