mercoledì 22 ottobre 2014

Bruciante segreto, di Stefan Zweig

ATTENZIONE, QUESTA RECENSIONE POTREBBE CONTENERE ANTICIPAZIONI SULLA TRAMA

Anche questo è un brevissimo racconto che si divora in poche ore, quasi senza accorgersene.
Non ho ancora letto moltissimo di Zweig, ma credo comunque di poter dire che la sua è una prosa travolgente, nel vero senso del termine. I suoi racconti si aprono con una tranquilla descrizione di una situazione tipica, quasi banale, per poi lentamente trasformarsi estringersi attorno il lettore in un vortice di sensazioni esasperate fino al parossismo.
In questo racconto ci troviamo in un albergo, fuori stagione, in compagnia di un giovane barone annoiato. L'attenzione di questo uomo, un cacciatore, come lui stesso si definisce, è attirata da una donna, non giovanissima ma ancora piacente. Il lettore potrebbe essere quindi indotto a credere che la storia evolverà con i tentativi di seduzione dell'uomo, ma è proprio in questo momento che entra in scena il vero protagonista del racconto: Edgar, il figlio dodicenne della donna, ragazzino fragile che sta recuperando le forze dopo una lunga malattia, annoiato da una vacanza dove nessun adulto sembra volergli prestare attenzione.
È dunque con disarmante ingenuità ed entusiasmo che Edgar accoglie le attenzioni del barone, con una gioia tipicamente infantile, la gioia che lo fa illudere di essere importante, di non essere più un bambino, di avere qualcosa di interessante da offrire ad un adulto distinto come il barone. E quanto più è grande e vivido il suo iniziale entusiasmo, tanto più cocente è il suo terrore, il suo sospetto, e infine la sua delusione quando si rende conto di essere stato solo uno strumento, gettato da parte, ingnorato, ritenuto addirittura d'intralcio da sua madre e dal suo nuovo amico.
Inizia quindi una discesa nei sentimenti più cupi, nella rabbia e nell'odio, dove la razionalità perde la presa sui fatti e dove il confine tra infanzia ed età adulta si fa sempre più labile.
Edgar cresce, prova sentimenti da adulto, ma la sua mente e le sue conoscenze sono ancora quelle di un bambino che vorrebbe a tutti i costi scoprire qual è quel segreto che tutti gli adulti sembrano conoscere. E sembra arrivarci veramente vicino, ma le emozioni si sono fatte troppo intense, troppo rapide perché lui possa coglierlo davvero.
È un racconto che è un accelerare continuo, di emozioni, di sentimenti, un vortice sempre più stretto e rapido che aumenta fino a raggiungere l'acme, e poi improvvisamente rallenta, sembra restare sospeso.
Leggo tanti dire che si tratta del passaggio di Edgar all'età adulta, ma io non credo di essere del tutto d'accordo. Credo sia un assaggio dell'età adulta. Perché in fondo, in conclusione, Edgar fra le braccia di sua madre, sotto le coperte, con il segreto della donna che non è riuscito a carpire ma ha deciso di salvaguardare, torna ad essere un bambino. O meglio, sceglie di essere ancora bambino, ancora per un po' almeno. E, certo, già una scelta simile implica un cambiamento irreversibile, l'aver in incubazione il seme di quella che sarà l'età adulta, ma è un passaggio che a mio parere ancora non è avvenuto.
In ogni caso, trovo si tratti di un racconto estremamente coinvolgente. Zweig scatta decisamente ad occupare un gradino del podio dei mie "autori-rivelazione" di quest'anno.

venerdì 10 ottobre 2014

Gli indifferenti di Alberto Moravia

ATTENZIONE, QUESTA RECENSIONE POTREBBE CONTENERE ANTICIPAZIONI SULLA TRAMA

Leggo Moravia per la prima volta, e lo faccio partendo proprio dal suo primo romanzo. Non è stata una scelta deliberata, ammetto di essermi affidata un po' al caso, di essermi buttata, ma sono contenta che le cose siano andate così. Leggo il primo Moravia (primo in tutti i sensi) a ventidue anni, e ventidue anni aveva lui quando scrisse questo romanzo: certo la cosa non mi lascia indifferente (è un gioco di parole non voluto, lo giuro), perché i miei ventidue anni mi sembrano così piccoli, così insignificanti al confronto... ma torniamo a noi.
Torniamo a questo dramma borghese, dove dramma mi sembra proprio il termine più adatto: leggendo questo romanzo ho avuto le stesse sensazioni che ho quando assisto ad un dramma a teatro, puntando tutta la mia attenzione su una scena con pochi ambienti fissi, sempre quelli, a malapena caratterizzati (la villa, una strada bagnata dalla pioggia costante, la casa di Lisa, la casa di Leo) e una manciata di attori pronti a tirare avanti tutto lo spettacolo da soli, senza bisogno di comparse, senza spalle. Infatti gli unici personaggi presentati da Moravia sono proprio loro, Carla e Michele, la madre (appellata quasi sempre così, raramente detta Mariagrazia, quasi fosse solo un personaggio, un ruolo), Leo e Lisa. Qualcun altro è nominato di sfuggita, ma non compare mai attivamente, mai in prima persona, non ci sono altre voci al di fuori di queste cinque. La madre, i figli, l'amante, l'amica. Ruoli che si intrecciano e si confondono. La madre che è quasi sempre appellata attraverso il suo ruolo genitoriale, ma che di materno non ha nulla, una donna fatta di capricci, gelosie e atteggiamenti infantili. L'amante, Leo , che è amante della madre ed era stato amante dell'amica e si appresta ad adoperarsi a diventare amante della figlia, senza aver provato amore per nessuna di queste figure. La figlia, Carla, disperata e non rassegnata a vivere la sua vita sempre uguale, sempre monotona, che s'è lasciata trascinare dall'esistenza per ventiquattro anni senza opporsi a nulla, abbandonata, che cerca di trovare una "nuova vita" concedendosi all'amante di sua madre, senza interesse, senza passione. E l'amica, Lisa, abbandonata dal marito, abbandonata dall'amante, che suscita le inutili gelosie della sua amica Mariagrazia e cerca di trovare affetto e calore fra le braccia di Michele, troppo giovane e indifferente per curarsi davvero di lei. E infine, c'è lui, Michele. Il personaggio forse più controverso, il più lucido e al tempo stesso il più incapace di spezzare tutta la finzione in cui la sua famiglia è avvolta. Michele è un personaggio in cui è facile specchiarsi, un uomo debole e indifferente, che affronta la sua vita covando rancori e sofferenze, senza avere però la forza di incanalarli contro gli oggetti che ha davanti. Michele sente ogni passione, razionalmente conosce perfettamente ogni emozione, ogni reazione che da lui ci si aspetterebbe, e si sforza con struggente impegno di aderirvi, di incarnarli, come un perfetto attore. Eppure non sente nulla, nulla lo riesce a colpire davvero, la vita la pensa e non è  capace di viverla restando, irrimediabilmente, indifferente.
Un romanzo crudo, freddo per certi versi, narrato con una prosa estremamente precisa ma asciutta, che nonostante tutto però permette di sentire sulla propria pelle i piccoli, immensi dolori di questi personaggi che nonostante la complessità delle loro relazioni restano sostanzialmente soli, incapaci di comunicare davvero anche solo il più piccolo sentimento, irrimediabilmente chiusi nei propri drammi, nelle proprie preoccupazioni, nelle proprie individualità. E questo muro, questa totale assenza di una qualsiasi forma di empatia in un primo momento sembra rimbalzare sul lettore, che si sente messo all'angolo, solamente spettatore. Eppure, in qualche modo, questo essere solo spettatori di emozioni paralizzate finisce col trascinare e travolgere inevitabilmente, perché forse un po' di questa indifferenza la conosciamo anche noi, la riconosciamo anche come nostra. E non sono sicura sia un processo piacevole riconoscere così bene i drammi di Carla e Michele e la madre.
Un grande romanzo che mi ha convinta dai primi capitoli a voler leggere altro di Moravia.

giovedì 25 settembre 2014

Ho imparato il ritmo delle mie irregolarità
dopo aver smesso di pretendermi
inchiostro.

Le mie curve interrotte
- respiri -
fra la schiena e le reni
con i brividi spenti
sono istanti
di raccolta.

È spiritualità marcescente,
di orgasmi morenti
come quella Venezia che non lo so
- fra i miei fremiti -
se ho scritto o vissuto.

Ma scrivo poco,
vivo poco e lo faccio di getto,
con l'apnea dei respiri mancati
e i miei singhiozzi
come onde.

lunedì 22 settembre 2014

Naufragio

Sognarti
è qualcosa simile ad odiarmi
condanna vana ad un senso di colpa
insincero.
Sognarti è prepotenza
prenderti di forza
e cancellare la distanza
che hai concretizzato in silenzio.

M'è bastato il tuo sguardo
illusorio
ubriaco di perdono
- l'amarezza, perdonala-
e le onde
rythmos
poesia nella prosa
per tornare a piovermi
dentro.

Ché il deserto
dentro
è il risveglio colpevole
di dita bagnate
e dei versi che ho smesso.

domenica 21 settembre 2014

Amok, di Stefan Zweig

Credo che con Zweig stia nascendo una bellissima storia d'amore. Ne avevo avuto il sentore con "Mendel dei libri", e la lettura di questo secondo piacevolissimo racconto me l'ha confermato.
È un "racconto nel racconto": di notte, sul ponte di una nave che sta facendo ritorno in Europa, un uomo inciampa nel racconto vagamente delirante di un medico. E il delirio, lo stordimento dei sensi, la perdita di ogni controllo in favore di uno sconvolgente furor è il filo conduttore di tutto questo racconto. Amok è il termine malese che indica il folle delirio di chi improvvisamente cede ad una violenza inaudita e immotivata e perde ogni concezione di sé, abbandonandosi ad una corsa di sangue. Delirio che sembra avere le sue radici nel clima torrido ed estraniante dell'estremo Oriente,  che scava lento e invisibile nella mente delle persone fino ad arrivare al punto di non ritorno.
Zweig è magistrale nel trascinare il lettore in uno sperduto villaggio di una colonia Olandese, nella casa di un tranquillo medico che, turbato da una misteriosa visita di una  bella e austera donna, lentamente precipita in un vortice di follia sempre più incontrollabile, fino ad un tragico epilogo che lascerà l'uomo privo di forze, annientato, svuotato, proprio come la vittima dell'amok che crolla a terra, i nervi distrutti, al termine della sua corsa di follia.
Assieme al protagonista noi sembriamo essere travolti e al tempo stesso sfiorati solo in superficie dal racconto del medico, eppure un segno, una minuscola scalfittura sembra lasciarci, nelle ultime pagine, con l'inquietante sensazione che l'amok, incontrollabile, potebbe covare anche dentro di  noi.

sabato 20 settembre 2014

Mendel dei libri, di Stefan Zweig

Una piccolissima perla. È una definizione banale, d'accordo, ma non saprei come altro definire questo brevissimo racconto.
Non avevo mai letto Zweig, e credo non avrei potuto iniziare a farlo con un'opera migliore: è il racconto perfetto per restare completamente affascinati da un nuovo autore. La scrittura di Zweig è estremamente fluida e ricca, coinvolge tanto da far dimenticare la parola scritta e dipingere nella mente del lettore immagini vividissime. Mi sono veramente bastate pochissime righe per ritrovarmi a fissare incuriosita il tavolino di marmo del Caffé Gluck, rapita dal ricordo del protagonista e dalla figura di Mendel. Sicuramente Mendel, piccolo rigattiere di Vienna, con la sua straordinaria memoria per tutto ciò che rguarda i libri e il suo modo di leggere assoluto, totale, dondolando davanti alle pagine dei libri, entrerà nel cuore di qualsiasi appassionato lettore. Ma accanto alla simpatia per questo buffo omino che conosce a memoria il catalogo di qualsiasi libreria e biblioteca si fa strada una tenerezza per la sua ingenuità che si fa via via struggente mano a mano che la Storia si apre un varco nella vita di Mendel.
Sul finire, il racconto della "signora della Toilette" non può che stringere un nodo nella gola del lettore.
Un racconto particolarissimo, un protagonista particolarissimo, maniacale, con qualche tratto che, chissà, sembra quasi ricordare l'autismo, ma che finisce per emozionare immensamente.

venerdì 5 settembre 2014

Tender is the night, di Francis Scott Fitzgerald

Prima di cominciare a parlare di questo romanzo nello specifico, credo di dover fare una premessa. Una premessa che forse risulterà vagamente delirante e in un certo senso forse estremamente supponente, non lo so, ma mi è necessario parlare anche di questo prima di poter proseguire oltre. Probabilmente prima di lanciarmi in affermazioni del genere dovrei fermarmi e provare a leggere anche altro di Fitzgerald, perché un solo romanzo e un racconto lungo quale è The Great Gatsby (un capolavoro, d'accordo, ma pur sempre un racconto lungo) non sono certo una conoscenza esaustiva di un autore. Si tratta probabilmente di un'intuizione, qualcosa di non del tutto razionale, qualcosa forse simile a ciò che ci spinge a lasciarci impressionare ed affascinare da alcune persone che a malapena conosciamo, ma quando leggo Fitzgerald, a prescindere dalla trama e dai personaggi, sento una sorta di attrazione quasi viscerale. Forse è qualcosa nello stile, nella ricercatezza non ostentata di ogni singolo termine, nel fluire elegantissimo delle frasi, o forse, più probabilmente, si tratta di una sorta di tonalità emotiva che permea proprio la scrittura di Fitzgerald. Mi sembra quasi che ci sia una comunione di sentire che mi fa sentire chiamata in causa in prima persona. Insomma, sono particolarmente sensibile a Fitzgerald, quasi leggendolo avvertissi una voce, delle tonalità, degli accenti particolari che alle mie orecchie, a prescindere dalle parole che pronunciano, acquisiscono una sovrabbondanza di significato.
Dunque leggere Fitzgerald è per me un'esperienza che si discosta un pochino dal mero lasciarmi trascinare in una vicenda, ha qualche connotato in più, è un'esperienza del tutto intima che supera e si allarga oltre le emozioni date dal puro romanzo.
Credo che Tender is the night sia un romanzo estremamente teatrale: teatrale in un modo tutto particolare, teatrale come quando lo sguardo dell'attore incontra quello di uno spettatore e da questo incontro, da questo sentirsi dell'attore riconosciuto nella sua natura, egli stesso si renda conto di essere null'altro se non finzione. E' dunque un romanzo che parla di finzione e realtà, dove l'attenzione è posta tutta allo scarto inquietante che rende così labile e ambigua la differenza fra i due stati.
Ci sono autori che inevitabilmente fanno di un solo elemento, di un tema declinato nei più diversi modi il tratto portante di tutta la loro produzione: a me sembra che la decadenza, lo sgretolarsi di una superficie luminosissima in un pozzo tetro sia un po' il leitmotiv delle opere di Fitzgerald, nonché della sua stessa vita. Non è difficile vedere dietro lo splendido Dick, bellissimo e sicuro di sé, della sua vita e del suo talento lo stesso Scott, pronto a lasciarsi travolgere dalla sfavillante apparenza della sua vita per ricadere in un baratro di angoscia, solitudine e alcool. E come non vedere nella malattia mentale di Nicole un riferimento alla schizofrenia di Zelda? E le origini economicamente modeste di lui, l'agiatezza della famiglia di lei...insomma, Fitzgerald credo sia stato estremamente esplicito.
Forse è proprio questo continuo riferirsi al labile confine tra ciò che è e ciò che non è, tra realtà e apparenza, finzione e naturalezza, vita e letteratura a fare la forza di questo romanzo. Un romanzo che in apertura si presenta come incentrato sulla bella e giovane Rosmery Hyot, nascente astro del cinema che si lascia incantare dal fascino dapprima dell'intera famiglia Diver, poi in particolare da quello maturo e irresistibile di Dick, per poi scivolare indietro nel tempo, e mostrare gli elementi più complessi del rapporto dei due coniugi. E quando il lettore si è finalmente persuaso della debolezza di Nicole, della forza e della personalità di Dick, ecco che tutto inizia a cambiare di nuovo, i rapporti si logorano, gli equilibri di forze mutano, e mentre Nicole acquisisce fiducia e forza nella sua mente, Dick inizia a scivolare nell'angoscia così nota allo stesso Fitzgerald.
Mi è quasi parso si stesse parlando di un Gatsby dilatato (alcune scene, come quella in cui Jay comunica a Tom che sua moglie non lo ama più sono riportate in maniera quasi identica), eppure qui troviamo una maggiore ampiezza, più attenzione per il logorarsi di rapporti familiari e interpersonali. Forse proprio in questa ampiezza sta anche una leggera debolezza che in Gatsby io non ho avvertito, perché vengono introdotte situazioni e personaggi potenzialmente interessantissimi, che però in qualche modo vengono lasciate cadere in un vago stereotipo (il rapporto di Rosmary con sua madre, il personaggio di Baby Warren, la minuscola apparizione del padre di Nicole, personaggio scomodo e potenzialmente pericolosissimo per l'equilibrio del romanzo, introdotto e fatto sparire in poche pagine senza che il suo ritorno smuova di molto le acque...).
In definitiva però lo ritengo comunque un grandissimo romanzo, capace di parlare di malinconia e angoscia attraverso feste, bellezza e ricchezza.